
Come abbiamo visto parlando della Divinazione, l’Urna rappresentava uno strumento di garanzia dell’imparzialità nel riconoscimento delle reincarnazioni – specie dopo i sospetti di interferenze nella selezione del decimo Shamarpa. La misura fu codificata nel 29mo articolo del documento noto come A Rhapsody in Praise of the Administration of the Tibetan Territories (皇清藏內善後章程二十九條).Il riconoscimento della reincarnazione di un Lama non è mai stato un fatto puramente “tecnico”: quando i segni spirituali conducevano a più di un candidato o quando si desiderava una conferma pubblica del processo, l’Urna d’Oro veniva utilizzata per rendere manifesto il verdetto del Dharma.
Sebbene criticata da qualcuno come una forma di controllo esterno, questa pratica in armonia con la tradizione divinatoria tibetana venne accolta ben presto come parte del rituale di riconoscimento.
Preparazione astrologica e spirituale
Nei giorni che precedevano l’estrazione, si officiavano cerimonie di purificazione e protezione. Astrologi tibetani determinavano il giorno propizio secondo il sistema del nag rtsis (“astrologia nera”), mentre i monaci conducevano delle pujā (atti di devozione) dedicate a divinità protettrici come Palden Lhamo, Mahākāla e Pehar Gyalpo.
“La cerimonia dell’Urna d’Oro non iniziava mai senza giorni di preparazione, offerte agli spiriti locali e rituali di protezione…” (Tsepon W.D. Shakabpa, Tibet: A Political History, Yale, 1967).
Disposizione del luogo sacro
Solitamente in una delle sale rituali del Tempio di Jokhang o del Palazzo del Potala a Lhasa, l’Urna veniva posta al centro, su un altare rivestito di stoffe preziose. Attorno ad essa si disponevano i Lama anziani, i membri del Kashag, i notabili tibetani e, quando previsto, i rappresentanti imperiali.
Storicamente, il rito dell’Urna fu celebrato quasi sempre in Tibet. Tuttavia, in due casi eccezionali – per il IX Dalai Lama nel 1808 e per il X nel 1822 – la cerimonia si svolse rispettivamente a Chengdu e a Pechino, alla presenza della corte Qing. In entrambi i casi, il nome estratto confermò la scelta già maturata in Tibet, fornendo così una ratifica formale e politica.
Storici tibetani e osservatori del XX secolo, come Shakabpa e Tsering Shakya, confermano che l’estrazione dell’Urna d’Oro avveniva in un contesto rituale altamente codificato.
I rotoli dei candidati
Il nome di ogni bambino identificato come potenziale reincarnazione, assieme al suo luogo di nascita e al lignaggio spirituale, veniva scritto su un rotolo di carta tibetana. Ogni rotolo veniva avvolto in seta identica a quella usata per gli altri e sigillato con cera rossa o dorata.
Durante la notte precedente, i rotoli venivano benedetti con mantra di Mañjuśrī – la divinità della saggezza, considerata la guida delle pratiche divinatorie. Le istruzioni per questa procedura erano contenute nell’editto del 1792.
L’estrazione
Nel silenzio cerimoniale del tempio, i presenti si raccoglievano in meditazione. L’officiante prendeva l’Urna, mescolava i rotoli lentamente e recitava il mantra Oṃ ah ra pa cha(tsa) na dhih. Recitato per invocare chiarezza mentale e discernimento, questo mantra tradizionale di Mañjuśrī, era considerato fondamentale per affidare l’esito all’intelligenza universale.
“Questa fase era ritenuta un momento di sospensione karmica, in cui l’intero Dharma si concentrava in un singolo gesto” (Tsering Shakya, The Dragon in the Land of Snows, Columbia University Press, 1999).
Dopo aver girato l’Urna tre volte in senso orario, l’officiante estraeva un rotolo, che veniva aperto e letto ad alta voce davanti all’assemblea. L’identità del bambino scelto veniva proclamata, mentre i presenti recitavano preghiere di ringraziamento.
“L’estrazione non era percepita come casuale, ma come decisione del karma collettivo manifestata attraverso la mano del Dharma” (ibid.) Quando – come per il X e l’XI Dalai Lama – il nome estratto coincideva con quello già individuato tramite visioni, sogni e oracoli, l’Urna serviva così a ratificare pubblicamente ciò che i maestri avevano già riconosciuto spiritualmente.
Seguiva una cerimonia di conferma, nella quale venivano accese lampade a burro, offerti incensi e firmati i documenti ufficiali da parte dei Lama, dei membri del governo e degli eventuali delegati cinesi.
“Fu solo quando il nome che avevamo riconosciuto apparve nell’Urna che sentimmo il segno definitivo della giusta reincarnazione” (Memorie del Reggente Reting Rinpoche, cit. in Luciano Petech, China and Tibet in the Early 18th Century, Brill, 1950).
Strumento nato da un decreto imperiale, l’Urna d’Oro era il mezzo attraverso il quale il karma e la saggezza trascendente del Buddha potevano manifestarsi pubblicamente. Il modo e il momento nel quale il visibile e l’invisibile si toccavano: il Dharma, che prendeva voce tra gli uomini.