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“LA PRESA DI RIFUGIO”: UNA PRATICA QUOTIDIANA DEI FEDELI BUDDISTI, Mirabile Tibet

“LA PRESA DI RIFUGIO”: UNA PRATICA QUOTIDIANA DEI FEDELI BUDDISTI

Dopo esserci avventurati sul sentiero del mantra, oggi presentiamo una delle pratiche più ricorrenti nella vita quotidiana dei fedeli del buddismo lamaista: ovvero la “presa del Rifugio”. Questa è di solito accompagnata da prostrazioni all’interno del tempio, davanti a uno stupa, o tchorteni in tibetano, contenenti le reliquie di un buddha o di un grande maestro. Queste preghiere, va sottolineato, possono essere svolte anche in casa propria, davanti all’altare domestico, che il più delle volte consiste in una semplice tavola di legno sulla quale sono collocati gli oggetti di devozione.

Come tutte le pratiche del dharma buddhista, anche la “presa di Rifugio” deve essere presieduta da una motivazione pura, come ad esempio la ricerca di una prossima esistenza favorevole, la liberazione dal samsara o la speranza del Risveglio. Ma analizziamo nel concreto come si svolge questa pratica.
Al mattino, il fedele, appena alzato, riordina questo altare per “invitare”, nelle condizioni migliori, il “campo di accumulo di meriti”, cioè i buddha e i boddhisattva, maestri del lignaggio e divinità protettrici. Vi dispone o rinnova le offerte materiali, che possono essere di otto specie: acqua da bere, acqua per abluzioni, fiori, incenso, luce, profumo, nutrimento, musica, rappresentata da uno strumento. In pratica una semplice tazza d’acqua può servire: l’essenziale è che l’offerta sia pura, cioè acquisita onestamente.

Il fedele procede poi a una “presa di Rifugio”, che consiste nell’affermazione della sua fede nella capacità dei Tre Gioielli: il Buddha, il dharma, il sangha. Questo permettere la eliminazione definitiva della sofferenza e il raggiungimento di una felicità stabile. Il fedele, meditando, immaginerà nello spazio davanti a sé la presenza reale degli oggetti di rifugio, cioè “il campo di accumulo”: al centro il buddha Sakyamuni; davanti a lui il maestro principale sotto la sua forma propria o sotto quella di un buddha differente (Vajradhara, Manjusri, ecc.) e, intorno, i diversi lignaggi di maestri, la folla  dei buddha, bodhisattva, pratyekabuddha, ahrat, eroi e protettori specifici del buddhismo tibetano. Il fedele dovrà anche immaginare, intorno sé, i suoi cari ovvero i suoi genitori, i suoi parenti come anche tutti gli esseri del samsara che hanno le loro proprie sofferenze. Dovrà anche ravvivare in sé le cause del rifugio: la sua fiducia nei Tre Gioielli, il suo desiderio di sfuggire alle sofferenze e, in quanto mahayanista, la sua compassione verso tutti gli esseri. E penserà che in seguito dagli oggetti di rifugio emanano flutti di nettare e di luce che lo purificano da tutte le colpe verso di loro, eliminano tutti gli ostacoli alle sue realizzazioni e gli conferiscono tutte le loro qualità.

Le prostrazioni di omaggio costituiscono un elemento centrale delle pratiche tibetane. Il termine tibetano che le descrive, “phyag tshal” significa alla lettera “inclinarsi”. Visitando i templi lambisti, ci si accorgerà che l’omaggio fisico si rende per tre volte di seguito, in due diverse forme. La prima, sicuramente la più fisica, consiste nell’allungarsi a terra in tutta la propria lunghezza: è la grande prostrazione (brkyang-phyag) praticata da fedeli che instancabilmente fanno così dei pellegrinaggi e  il giro dei santuari. La seconda maniera (bskum-phyag) consiste nel toccare la terra in cinque punti: le mani, le ginocchia, la testa.

Prima di toccare il suolo o di allungarsi, il fedele, in piedi, congiunge le mani all’altezza del petto, poi le porta o in tre punti centrali del corpo: in cima alla testa, all’altezza della gola e davanti al petto; oppure in quattro punti, aggiungendo la fronte. Questi gesti sono ovviamente intrisi di simbolismo: per le mani giunte, la destra corrisponde al Metodo (compassione, ecc.), la sinistra alla Sapienza. Congiungerle rappresenta l’unione del metodo e della Sapienza. Portarle alla cima della testa simboleggia il futuro ottenimento del unishnisha (protuberanza cranica, segno di un buddha); davanti alla fronte, quello dell’urna (la mèche arrotolata nel senso delle lancette di un orologio, che spunta fra le sopracciglia di un buddha); davanti alla gola, l’ottenimento della Parola di un buddha e davanti al cuore quello dello spirito di un buddha.

Questa pratica, che si pensa procuri grandi benefici, è molto popolare in tutta la Cina. I tibetani ritengono che ci si allunga a terra in tutta la lunghezza per la grande prostrazione si ottengono mille volte più meriti di quante sono le infime particelle del suolo contenute sulla superficie coperta dal corpo. Nessun Tibetano ignora le virtù di tale pratica e tutti vi si applicano con la massima devozione, anche senza essere sempre consapevoli del significato preciso dei gesti compiuti.

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