
Il monaco, lo yogi e l’eremita
Quando pensiamo al Tibet, è facile immaginare un monaco in abito rosso scuro – ma quello è solo uno dei volti della spiritualità tibetana. Ce ne sono altri due, meno conosciuti ma altrettanto profondi: quello degli yogi tantrici, chiamati Ngakpa, e quello dei Togden. E l’abbigliamento assume un valore simbolico, in segno dei voti fatti e dell’impegno spirituale preso.
I monaci sono coloro che, in spirito di rinuncia e seguendo lo stile più antico del Buddhismo, hanno preso l’ordinazione – il che implica il divieto di commettere una serie precisa di azioni e obbliga a seguire una vita sobria, casta e comunitaria, regolata da uno dei tre principali testi del canone buddhista (Vinaya, cioè “disciplina”).
I monaci pienamente ordinati, chiamati bhikṣu in Sanscrito e dge slong in Tibetano, indossano tre vesti principali: una gonna lunga detta shamtap, una tunica superiore ocra o gialla chiamata chögu, e uno scialle cerimoniale noto come zen, da portare sulla spalla sinistra. Nei momenti solenni o durante i rituali pubblici, si aggiunge una veste più grande e decorata – il namjar – che segnala la piena ordinazione e che, pertanto, non viene indossato dai novizi. In altre parole, se un monaco porta una veste superiore gialla, è probabile che sia pienamente ordinato.
I Ngakpa, importanti soprattutto nella scuola Nyingma del Buddhismo tibetano, incarnano un approccio diverso, più fluido e non separato dalla vita quotidiana. Sono yogi tantrici laici, spesso sposati, talvolta con figli, ma comunque legati a una pratica profonda e impegnativa, trasmessa attraverso linee iniziatiche ben definite. A volte, possono vivere ai margini delle comunità ma, per di più, sono ben inseriti nel tessuto comunitario del villaggio. E anche il loro abbigliamento racconta questa duplice natura, di praticanti rigorosi ma non monaci. Infatti, la veste più caratteristica è un ampio scialle a righe detto zentra, spesso fatto a mano con filati grezzi di colore bianco e decorato con strisce rosse, molto simile all’angavastram brahmanico e che rende visibile l’appartenenza al lignaggio tantrico.
A differenza dei monaci, i Ngakpa non si rasano la testa. Spesso portano i capelli lunghi, raccolti in trecce o ciocche legate, che simboleggiano la continuità della trasmissione, la forza vitale e il radicamento nella Natura. Alcuni indossano anche ornamenti rituali o accessori – come mala di osso, tamburi damaru oppure pelli e stoffe benedette – legati alla loro pratica specifica. Sono esperti ritualisti e, a volte, la loro figura assume tratti decisamente magici o sciamanistici.
Ancora diverso è il discorso relativo ai Togden – letteralmente, “coloro che possiedono la realizzazione” – associati principalmente alla scuola Drukpa Kagyu e noti per il loro impegno straordinario nella pratica spirituale. Che dedicano la loro vita a ritiri intensivi e prolungati, spesso in isolamento, tant’è che le loro vesti – a simboleggiare la purezza e il loro status unico nella comunità buddhista tibetana – sono completamente bianche.
Non solo tessuti e colori dunque, bensì percorsi e storie di una vocazione. I monaci vivono secondo regole precise, in comunità organizzate, e rappresentano l’aspetto istituzionale e disciplinato del Buddhismo. I Ngakpa incarnano una via tantrica più flessibile, integrata nella vita quotidiana ma non per questo meno rigorosa. I Togden, infine, rappresentano il vertice della pratica individuale: ritiri intensi, dedizione totale e una vita per di più lontana dagli occhi del mondo.
Abiti, scelte e ruoli. Un’evoluzione cominciata subito dopo l’introduzione del Buddhismo nel Tibet, tra il VII e l’VIII secolo, e che nel tempo prenderà forme diverse – alcune, più monastiche e strutturate, ispirate alla tradizione indiana del Vinaya; altre, più esoteriche e sperimentali, legate agli insegnamenti tantrici.
Ciò che oggi vediamo nei monasteri, nei villaggi e nei ritiri è l’eredità viva di una storia lunga più di mille anni.