
Sembra strano, ma alcuni dei tappeti dell’aeroporto internazionale di Dubai, di diverse navi da crociera e degli alberghi di Las Vegas provengono dal Qinghai-Tibet. Cioè, da una tradizione lunga 3mila anni, famosa per la lana di pecora dell’Altopiano (changphel), il metodo di annodatura – diverso da tutti gli altri nel mondo – e la bellezza, talvolta intrecciata alla meditazione tantrica.
Nel XIX secolo, i tappeti tibetani usano pochi colori e poche geometrie: robbia, fiori di indaco, rabarbaro e noce (quindi rosso, blu, giallo e marrone), con l’aggiunta di qualche altra pianta per il verdastro, e forme a scacchiera o medaglione alternati a motivi decorativi d’ispirazione cinese. Nei primi anni ’90, tutto questo cambia: allargando tavolozza e fantasia, recuperando l’antica Arte dai pastori nomadi che – dalle sedute nelle tende alle selle dei cavalli – l’hanno trasmessa per generazioni e tornando a essere tra i più desiderati al mondo.

Si comincia con la scelta della lana migliore. Cioè, dalle parti giuste (come, per esempio, il collo) delle pecore tibetane che vivono a oltre 4mila metri – le uniche in grado di donare delle fibre pure di colore, lunghe e resistenti. Poi si passa al lavaggio a mano, separando le bianche (più adatte alla tinteggiatura) da quelle nere o grigie e mettendole ad asciugare al Sole, e alla cardatura con spazzole di legno, fino a ottenere una lana soffice e leggera. Infine, si procede con la filatura che, in base al colore e all’uso per la trama (solitamente più spessa e più larga) o l’ordito (più sottile e stretto), determinerà lo spessore delle fibre. Il resto, dagli strumenti utilizzati alle annodature e le tecniche di tessitura, rimane “segreto del mestiere”.

Oggi, le fabbriche sono tante – due delle quali a Lhasa, “il luogo degli Dei”, entrambe sulla stessa via del Monastero Sera. Ma uno dei maggiori produttori di tappeti tibetani si trova a Xining, nella provincia del Qinghai. Una struttura partita nel 2007 con sole 20 persone, che combina il lavoro a mano di oltre 200 residenti – “eredi” di questo patrimonio artigianale antico – con quello di poche macchine e le cui vendite in Europa, Medio Oriente, Nord America e Australia stanno superando i 12 milioni di euro all’anno. Per due ragioni principali: lo spessore del filato, di solo un ottavo rispetto a quello dei tappeti tradizionali (a rendere le creazioni più raffinate e più durevoli), e la tavolozza di colori, che oggi conta ben 40mila tonalità.

Un passaggio quasi epocale, dall’Altopiano al mondo. Perché se, storicamente, i tappeti tibetani sono presenti soltanto nelle case delle famiglie benestanti e nei monasteri (dove servono come runners lungo i corridoi, come cuscini dei monaci, come avvolgimenti delle colonne nelle “sale riunioni” e – beninteso – come sedute per le preghiere), oggi vengono esportati ovunque e usati per arredare ma anche come arazzi e persino letti. Nel caso della fattoria di Xining, al prezzo di 50-60mila yuan (6-7mila euro) a metro quadro, per completare il quale un artigiano tibetano lavora quasi un anno. Nel caso delle aste e vendite online, purtroppo a molto meno – in funzione soltanto dell’età (a privilegiare quelli antichi), delle dimensioni, del numero di nodi e del disegno, tradizionale o contemporaneo.
Fortunatamente, i veri estimatori non mancano. Tant’è che – per la loro lana, tecnica unica, morbidezza, durevolezza e bellezza – i tappeti tibetani sono considerati, assieme a quelli persiani e indiani, tra i tre tradizionali più prestigiosi al mondo. Da apprezzare, rispettare e possibilmente amare, con gratitudine per la cura e la fatica in ogni fibra di questa antica Arte.