OLTRE IL MITO: LE VERITÀ DEL TIBET PREMODERNO

  • by Redazione I
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  • 16 Nov 2025
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OLTRE IL MITO: LE VERITÀ DEL TIBET PREMODERNO, Mirabile Tibet


Per gran parte del pubblico occidentale, il Tibet significa montagne innevate, monaci immersi nella contemplazione e una società pacifica e armoniosa. Un’immagine affascinante, diffusa soprattutto dai racconti di viaggio del Novecento che esaltano un Tibet fermo nel tempo e perfetto.

Eppure, quando ci si avvicina alle fonti storiche, il quadro reale è molto diverso. Complesso, stratificato e – per molto tempo – profondamente conflittuale.


Un arcipelago di poteri

Per comprendere il Tibet prima dell’età contemporanea, bisogna abbandonare l’idea mitica di un’unità religiosa e politica e accogliere la realtà storica di un mosaico di regioni, famiglie, monasteri e comunità con identità molto marcate.

Le grandi Scuole del Buddhismo tibetano (Nyingma, Sakya, le varie diramazioni Kagyu, Gelug e Jonang) non sono semplici luoghi di preghiera e meditazione ma vere e proprie istituzioni – con territori, economie e commerci, monaci guerrieri e alleanze politiche che spesso le mettono in concorrenza fra loro. Questa pluralità è una delle caratteristiche più interessanti della Storia dell’Altopiano, e vale anche per l‘organizzazione della Spiritualità. Che non è mai un corpo unico bensì una rosa di Scuole, ognuna con una propria visione del Dharma, dei rituali e del Potere.


Rivalità religiose e conflitti politici

Come dicevamo, le tensioni fra le Scuole non sono semplici divergenze dottrinali: infatti, in più fasi della Storia, esse si traducono in vere rivalità politiche.

Nel XIV secolo, furono i Sakya a contendere l’autorità alla dinastia Phagmodrupa e, nel XVII, i Gelug andarono contro le correnti Kagyu dell’area dello Tsang. Soprattutto, contro la Scuola Jonang – i cui monasteri furono confiscati e la cui dottrina venne proibita. Un gesto che oggi stupisce chi immagina i monaci come figure lontane dai conflitti di potere, ma che in realtà riflette un sistema nel quale religione e politica sono profondamente intrecciati.


Nascita del Potere centrale

Un altro elemento poco conosciuto è il ruolo fondamentale delle alleanze esterne.
Il titolo stesso di ‘Dalai Lama’ non nasce in Tibet ma nella cultura mongola. E l’ascesa politica dei leader spirituali tibetani accade nel 1642 – quando l’esercito dell’allora Khan interviene a favore della Scuola Gelug, instaurando a Lhasa una nuova forma di governo teocratico. È a partire da quel momento che l’autorità politica del Dalai Lama inizia a consolidarsi, anche se con una supremazia limitata: molte regioni orientali del Tibet, come le storiche Amdo e Kham, rimangono infatti per decenni fuori dal controllo effettivo del governo Gelug.

L’immagine di un Tibet unito sotto il Dalai Lama è dunque frutto di una lettura retrospettiva e un po’ idealizzante: in realtà, e per lunghi periodi, il potere politico viene esercitato da reggenti, famiglie aristocratiche, amministratori locali o comunità monastiche.


Una società complessa

La vita quotidiana nel Tibet premoderno è regolata da un sistema sociale molto stratificato, che – mentre tiene le classi “inferiori” in regime di servitù – concentra il Potere nelle mani dei monasteri e degli alti membri del Clero, delle famiglie aristocratiche e dei funzionari governativi.

I grandi monasteri possiedono campi e allevamenti, riscuotono affitti e tributi dai contadini legati alle loro terre, e amministrano la Giustizia. Le famiglie aristocratiche, da parte loro, esercitano un’autorità e un’influenza spesso più forte di quella centrale. Le norme giuridiche variano da regione a regione ma, in alcune epoche, i codici penali prevedono pene che oggi verrebbero considerate come tortura – eredità di un Diritto antico non diverso per crudeltà da altri sistemi premoderni dell’Asia centrale.

Tutto ciò non diminuisce il valore spirituale della tradizione tibetana, ma ci ricorda che essa si muove in un mondo crudamente concreto e poco fiabesco.


La pluralità culturale e politica

Solo una parte del Tibet è realmente governata da Lhasa. Infatti, le regioni orientali hanno le proprie strutture politiche: clan guerrieri, capi locali, monasteri influenti e comunità nomadi autonome. E in molte valli remote continua a prosperare una religiosità che non dipende dal centro del potere Gelug, spesso basato su lignaggi non monastici bensì familiari.

Questa vasta ricchezza culturale contrasta fortemente con la rappresentazione occidentale, che tende a ridurre l’intera civiltà tibetana alla figura del Dalai Lama.


Un paese reale, non un ideale astratto

Guardare al Tibet premoderno senza filtri “romantici” non significa svalutarne la grandezza culturale: al contrario, permette di apprezzarne la profondità. Fatta di Scuole brillanti, filosofi raffinatissimi e tradizioni uniche ma anche di conflitti, trasformazioni e tensioni in un paese che, più volte, sa reinventarsi, adattarsi, accogliere le influenze esterne e integrarle nel proprio tessuto spirituale, culturale e artistico. Superare dunque il mito del Tibet “puro” e “immobile” significa restituire dignità alla sua Storia vera: affascinante, plurale, ricca di sfumature, molto più umana e, perciò, ancora più interessante.