QUALI GLI ORDINI MONASTICI TIBETANI? UNO SGUARDO DALL’INTERNO, Mirabile Tibet

QUALI GLI ORDINI MONASTICI TIBETANI? UNO SGUARDO DALL’INTERNO

  • by Redazione
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  • 30 Set 2017
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L’ordine Sa-skya-pa ha origine con il monastero omofono fondato nel 1073 da un appartenente della famiglia (nobile?) dei ‘Khon, Konchog Gyalpo (discepolo di Dogmi che portò dall’India il’insegnamento dei grandi yogin secondo il quale il “risveglio” è colto già nel “cammino”), e grazie alla posizione in una via commerciale del monastero l’ordine e la forza Sa-skya crebbe rapidamente.

L’ordine bKa’-rgyud (l’ordine trasmesso, pronunciato Kagyu) fondato da Mar-pa è diventato famoso con il suo discepolo Milaraspa (pronunciato Milarepa), il più famoso e potente degli yogin tibetani, celebre per i suoi poteri magici e per i suoi canti diffusi attraverso la sua biografia che è un genere di letteratura tibetana tradizionale e didattica nel contempo. A metà strada fra lo storico e il fantastico è la biografia del maestro di Mar-pa, cioè Naropa, che fu discepolo del mahasiddha Tilopa. Tilopa avrebbe sottoposto Naropa a dodici prove difficili e lo stesso avrebbe fatto Mar-pa con Milaraspa. Il più grande discepolo di Milaraspa, Dagpo Lhaje o sGam-po-pa (pronunciato Gampopa, 1079-1153), ricevette gli insegnamenti di Mar-pa (che a sua volta aveva assimilato la dottrina da una serie di saggi e yogin indiani) attraverso Milaraspa. I discepoli di sGam-po-pa, che fu una figura molto influente, fondarono almeno sei scuole famose e uno di loro fondò il primo monastero bKa’-rgyud-pa, quello di gDan-samthil. In alcune scuole bKa’-rgyud-pa (come quella ‘Bri-khung-pa) la successione dei superiori non avveniva ereditariamente ma per reincarnazione e questa particolarità è stata probabilmente ereditata dalla serie di yogin indiani (gli 84 mahasiddha). Anche nella Sa-skya si procedeva per incarnazioni sempre ritrovate, però, nel ramo dei discendenti di ‘Khon. Il ramo Karma-pa ricavava sovvenzioni da un ampio gruppo di famiglie terriere e nomadi nelle vicinanze dei monasteri. Sia i Sa-skya che i bKa’-rgyud-pa diffondevano l’insegnamento per ottenere l’illuminazione nella stessa vita o al massimo in punto di morte. Con sGam-po-pa passiamo dall’epoca dei traduttori a quella degli studiosi buddisti tibetani capaci di scrivere dissertazioni sulla dottrina basandosi sulle traduzioni tibetane che ormai sono accessibili. Sono ancora necessari traduttori ma ora sono subordinati a maestri e studiosi che spesso conoscono il sanscrito molto poco o per niente. Dei maestri studiosi Sa-skya ricordiamo Kun’-dga’-snying-po (che sistematizzò gli insegnamenti basati sui culti tantrici di Hevajra e Samvara) e Kun-dga’rgyal-mtshan (che commentò i tantra principali e scrisse sulla filosofia, la logica, la grammatica e la poesia) e ancora ‘Phags-pa (che compose anche spiegazioni dei tantra per i patroni mongoli inventando la scrittura per la lingua mongolica che porta il suo nome).

All’inizio del XIII secolo vi furono sette centri potenti di insegnamento in Tibet. La fama e la ricchezza dei monasteri crebbero in fretta: ogni monaco partecipava alle cerimonie del tempio, ai riti, ai canti e all’esecuzione musicale, alcuni, inoltre, si occupavano di lavori accademici come traduzioni, edizioni, copiatura e stampa di manoscritti ma tutti erano tenuti a partecipare alle necessità pratiche della vita quotidiana (lavoro di amministrazione e mantenimento come quello nei campi o il pascolo). Da VII al XIII secolo i sapienti tibetani furono principalmente impegnati nella traduzione di ogni opera buddista indiana scritta in sanscrito, opere che andarono a costituire la base fondamentale delle scritture buddistiche tibetane comuni a tutti i diversi ordini tradizionali. Con la fine della traduzione di tutti i testi recuperati in sanscrito, inizia la stesura del Canone tibetano. Dal XII secolo alcuni sapienti tibetani avevano trasferito in Tibet non solo i testi ma anche l’intero modo di vivere dei monaci buddhisti e degli yogin indiani (mentre altri aspetti della vita indiana restarono del tutto trascurati in modo da interessarsi solo alla dottrina buddhista indiana). Le scuole monastiche del buddhismo in India insegnavano non solo dottrina e logica buddiste ma anche astronomia, medicina, rituale, liturgia, grammatica, poesia, arti e artigianato ma la maggior parte dei tibetani rimase all’oscuro di queste dottrine insegnate nei monasteri indiani:ciononostante erano disposti ad accettare che i sacerdoti buddhisti agissero a loro beneficio al posto dei loro sacerdoti originari. La diligenza e l’interesse che caratterizzò i tibetani nella scoperta di tutto ciò che fosse buddista li portò, nei secoli, a pensare il buddismo non più in collegamento con la sua patria d’origine ma come religione propria e tradizionale (aiutati anche dal fatto che a parte i primi traduttori nessuno conosceva il sanscrito poiché i testi erano già stati tutti tradotti). Sembra che i tibetani abbiano appena fatto in tempo ad acquisire tutto ciò che fosse possibile sul buddismo indiano.

Infatti intanto l’avanzata dei musulmani aveva provocato la distruzione dei più grandi centri buddistici in India (XII-XIII secolo) e l’uccisione dei monaci. Allo stesso modo stavano avanzando, sotto la direzione di Gengis Khan, i mongoli che distrussero (agli inizi del XIII secolo, dal 1206) il regno Xi Xia (o tangut o My-nyag) e si introdussero nella corte cinese. In Tibet, nonostante la caduta della monarchia e le varie lotte fra monasteri, vigeva ancora l’indipendenza finché gli inviati di Gengis Khan non si presentarono chiedendo la sottomissione del Tibet che altrimenti sarebbe stata presa con la forza. I tibetani risposero positivamente e per secoli il rapporto con i mongoli fu abbastanza pacifico poiché in cambio della pace i mongoli chiedevano solo che gli si presentasse la religione buddista.

Con la scomparsa del buddismo in India e in parte nei paesi confinanti al Tibet, i tibetani si preparavano ad entrare in un nuovo periodo di isolamento culturale (il precedente fu in una situazione simile ma contraria, quando tutti i paesi confinanti erano già buddisti ma il Tibet non lo era ancora). Tutto ciò che ora il Tibet aveva in comune con i suoi vicini erano le teorie mediche (basate parzialmente sulle nozioni psicologiche indiane legate allo yoga e in parte sulle osservazioni anatomiche cinesi più una classificazione indiana delle malattie), le teorie e le scienze dell’astronomia (come anche il calendario basato sul mese lunare), gli stili dell’architettura, quelli dell’iconografia e quelli della pittura (che più avanti prenderanno uno stile tibetano).

Fino al 1239 il Tibet non fu proprio invaso dai mongoli: fu solo con Godan, uno dei due figli di Ogodai (successore di Gengis Khan) che iniziarono i rapporti fra i due paesi. Impressionato da ciò che gli venne riferito dell’influenza dei grandi Lama, Godan convocò un rappresentante tibetano alla sua corte: la scelta doveva essere effettuata tra i grandi Lama di ‘Bri-khung, sTag-lung e Sa-skya e nel 1244 il Lama di Sa-skya partì per incontrare il Khan e, dopo aver mandato lettere ai maggiori capi spirituali e signori tibetani parlando in modo positivo dei mongoli (e della protezione che avrebbero dato al Tibet senza interferire con la religione se si fosse sottomesso), fu nominato “reggente” con l’obbligo di risiedere alla corte del Khan e di trasmettere ordini agli ufficiali in Tibet. Sakya panchen, dopo aver iniziato Godan e aver preparato un alfabeto mongolo, fu premiato con la donazione del regno di U e di Tsang ai Sakya.

Il nipote del Lama “reggente”, ‘Phags-pa (Phagpa, 1235-1280), nipote di Sakya Pandita, strinse talmente i rapporti con Kublai Khan, nuovo invasore mongolo, che divenne a tutti gli effetti vassallo mongolo e sovrano del Tibet mentre Kublai divenne un potente e devoto protettore del Buddhismo. Questo è il periodo in cui il Grande Lama di scuola Sa-skya, Papka Lama (obbligato a risedere alla corte mongola), nella persona di sovrano del Tibet (anche se non sempre riconosciuto dai Lama degli altri grandi monasteri), fu eletto da Qubilai Khan consigliere spirituale e sacerdote supremo alla corte cinese fondando la dinastia Yuan nel 1271. I mongoli non cercarono di amministrare il Tibet ma crearono un efficiente sistema di comunicazione e organizzarono il territorio in distretti basato sui vecchi sistemi amministrativi tibetani. Alcuni Lama cercarono di imitare i Sa-skya cercando protezione e maggior prestigio aspirando all’amicizia con qualche capo mongolo: a questo proposito arrivarono i Karma-pa, i mTshal-pa e Bri-khung-pa. I Sakyapa regnarono per circa settantacinque anni e furono affiancati dal potere Karmapa. Queste alleanze molteplici fra vari Lama e capi mongoli alterò ancor più le relazioni fra monasteri che credevano di aver la possibilità di portare il proprio Lama al trono del Tibet e queste rivalità si scatenarono con guerre vere e proprie fra monasteri (grazie all’aiuto dei vari signori mongoli e dei loro eserciti) in cui i monaci avevano il compito di andare in lotta. Ovviamente non mancavano buoni esempi di uomini e Lama devoti solo all’aspetto religioso della loro vita e spesso a far rispettare una rigida disciplina monastica. Alcuni si consacravano ad una vita tranquilla e santa, altri erano portati per un ascetismo più violento che li portava a frequentare cimiteri, cibarsi di sostanze vili, vivere svestiti nel freddo, leccare le piaghe dei lebbrosi e sopportare ogni sorta di stenti che si infliggevano da soli. Questi personaggi estremi erano conosciuti come “folli” (non nel senso stretto della parola) apprezzati per l’insegnamento morale che avrebbero potuto trasmettere. Al declino degli Yuan corrisponde quello dei Lama Sa-skya che già si stava indebolendo a causa del sistema della successione per nascita ( ad ogni Lama deceduto corrispondevano tre reincarnazioni: del corpo, della mente e di beatitudine) che produsse un gran numero di eredi potenziali. Dal XIV secolo (forse anche prima) prende piede in Tibet una forma di successione, quella del lama incarnato, che per quanto supportata dalla dottrina buddista canonica ha caratteri unici. La rinascita di un Lama incarnato è vista come rinascita di un Buddha, libero dal karma, che rinasce volontariamente per il bene degli altri. In punto di morte il lama da indicazioni sul luogo in cui si dovrà cercare la sua prossima nascita.