“LA TRILOGIA DELL’ILLUSIONE”, Mirabile Tibet

“LA TRILOGIA DELL’ILLUSIONE”

  • by Redazione
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  • 14 Mag 2017
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Nell’ampio panorama che ci viene offerto della letteratura moderna cinese, da segnale sono i tre racconti di un giovane scrittore sino-tibetano di nome Tashi Dawa, nato nel 1959, da padre tibetano e da madre cinese (Sichuan).

Di questa “Trilogia dell’illusione” fanno parte “La luce dell’abisso” (Xuanyan zhi guang), comparso per la prima volta nella rivista cinese Shouhuo (Il Raccolto) 1998/6, “L’invito del secolo” (Shiji zhi yao), comparso per la prima volta nella rivista Zhongshan 1988/2 e “Lo splendore dei cavalli del vento” (Fengma zhi yao), comparso per la prima volta nella rivista Xizang wenxue (Letteratura tibetana) 1987/9. Purtroppo in Italia, almeno per la letteratura cinese contemporanea, tutte le opere tradotte dal cinese sono sempre state già tradotte tempo prima da editori francesi o stranieri in genere, togliendo gran parte di quel merito che invece spetterebbe ad alcuni nostri bravi traduttori se ciò non si verificasse.

La lettura della “Trilogia dell’illusione” è un ottimo punto di partenza per ognuno di noi per illustrare il Tibet di oggi, ci sembra del tutto indovinata. Lo scrittore nelle sue pagine rivive infatti la sua vita, trascorrendo l’infanzia spostandosi tra la Cina continentale e lo Xizang, vivendo fin da bambino le contraddizioni tra progresso, civiltà moderna e tutela della tradizione e delle radici, a volte opprimenti.

Come la maggioranza degli autori tibetani della sua generazione, fa uso della lingua cinese come mezzo espressivo letterario. Non certo per scelta, quanto per il fatto che la lingua tibetana è gradualmente, per tradizione, non veniva utilizzata molto nella narrativa, inoltre va sottolineato come l’uso del mandarino agevoli non poco la circolazione degli scrittori dell’Altopiano anche fuori dai confini della Regione stessa.

Inizialmente inscritto dalla critica tra la categoria degli “scrittori delle minoranze”, poichè al centro della sua narrazione dominano temi quali la ricerca delle radici, lo smarrimento per la perdita dell’ identità e degli antichi valori tradizionali, temi cari a tutto un filone della letteratura cinese post maoista (xungen wenxue); a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in coincidenza con le Riforme d’Apertura di Deng Xiaoping, l’autore modifica lo stile e il contenuto della sua opera. Abbandona infatti la sfera realistica per abbracciare il realismo magico. Si trasferisce in una dimensione senza tempo dove la concatenazione logica passato – presente – futuro è prodigiosamente sovvertita. Sono evidenti in molte opere di questo suo secondo periodo, l’influenza della letteratura ispano-americana, la cui diffusione in Cina è stata molto rilevante proprio negli anni 90. Non deve sorprendere, quindi, constatare che tra culture così distanti ci siano delle affinità: “entrambe hanno in comune una concezione della realtà che non è mai separata dal soprannaturale e dalla magia” e Tashi Dawa ha il merito di averlo scoperto.

Molto intenso ed emblematico il racconto centrale del libro: un aquilone che ondeggia nel cielo e vola via lontano, dopo che la sua cordicella si è spezzata, è il pretesto che si offre al protagonista per intraprendere un lungo viaggio nei territori del tempo e dell’anima. Dall’antico villaggio natale, sperduto tra le montagne, a luoghi indefinibili dallo scenario inquietante, dove si intrecciano vicende passate e future in una atmosfera magica che però allegoricamente vuole dipingere la realtà attuale del Tibet, il lungo viaggio si concluderà in una buia cella, dalla cui finestra il protagonista rivedrà lo stesso aquilone, ripreso da vecchie e bambini che nella calca lo distruggeranno.