
Nel Tibet, il monachesimo nasce insieme al Buddhismo stesso. Cioè nel VI-V secolo a.C. quando, dopo l’illuminazione sotto l’albero di fico, il Buddha storico – Shakyamuni – fonda la prima comunità di discepoli: il Sangha.
I primi monaci vivono di elemosina, dormono nelle foreste o nelle grotte e si distinguono per la vita semplice e senza possedimenti, condotta sotto le regole impartite dal Buddha. E anche il loro abbigliamento è essenziale: tre vesti cucite con pezze scartate, tinte di giallo o marrone.
Sotto il regno di Songtsen Gampo, il Buddhismo comincia a diffondersi in Tibet. Ma è con l’imperatore Trisong Detsen e l’arrivo di grandi maestri indiani come Śāntarakṣita e Padmasambhava – portatori dei testi dottrinali e del Vinaya (“la disciplina” monastica) – che la religione del Buddha è formalmente stabilita sull’Altopiano.
Nel 779 d.C. viene fondato Samye, il primo monastero buddhista tibetano. E, fin da subito, per il sistema di ordinazione è stabilita la linea di trasmissione della scuola Mūlasarvāstivāda – ancora oggi alla base della disciplina monastica tibetana. Così, nei secoli successivi, il monachesimo diventa uno dei pilastri della cultura tibetana: i laici e i governanti patrocinano i monasteri mentre i monaci si dedicano allo studio, alla trascrizione dei testi sacri e ai rituali per la protezione della comunità. Nel tempo, i grandi monasteri ospitano centinaia di monaci che studiano Filosofia, Logica, Medicina tradizionale, Cosmologia e Arte rituale, preservando il patrimonio buddhista e trasmettendolo alle generazioni future. Così, tra studio, “staffetta generazionale” di insegnamenti millenari e assistenza delle comunità nei momenti importanti della vita, i monasteri diventano – da luoghi di preghiera – dei centri di riferimento della Cultura tibetana.
Il numero dei monasteri cresce enormemente, soprattutto tra l’XI e il XVIII secolo. E il sistema monastico tibetano si diffonde anche oltre i confini del Tibet storico, raggiungendo il Bhutan, il Ladakh, il Nepal e la Mongolia. Ognuna di queste regioni lo integra con le proprie peculiarità culturali, mantenendo però la struttura di base dei voti, dei testi Vinaya e delle regole di condotta. Che riguardano l’intera pratica quotidiana, dal comportamento e i rapporti sociali all’alimentazione e persino l’abbigliamento – allo scopo di coltivare consapevolezza, rispetto e sobrietà.
Con la diffusione del Buddhismo tibetano in altri Paesi asiatici e in Occidente, molti monaci portano i propri insegnamenti in contesti culturali nuovi, spesso molto diversi da quelli tradizionali. La tradizione monastica cerca pertanto di adattarsi a queste differenti realtà, sviluppando una certa flessibilità – anche scegliendo di proseguire il cammino spirituale come pratica laica. Un’alternativa legittimata proprio dalla visione tantrica, che riconosce il valore di maestri altamente realizzati anche quando non appartenenti all’ordine monastico e che permette di approfondire il Dharma al di fuori della struttura formale del Vinaya.
In passato, soprattutto nelle aree rurali del Tibet e delle regioni himalayane, entrare in monastero era spesso una delle poche strade disponibili per ricevere un’istruzione, garantirsi un pasto quotidiano e sfuggire alla povertà. In altre parole, la vita monastica offriva sicurezza, dignità e un ruolo riconosciuto nella comunità. Oggi, questa dinamica è cambiata: l’accesso all’istruzione laica è più diffuso, le condizioni materiali sono migliorate e le opportunità nel mondo esterno si sono ampliate. Di conseguenza, la scelta di diventare monaco non risponde più a una necessità sociale o economica bensì a una reale aspirazione spirituale.
E questo rende la via monastica più autentica, ma anche più esigente.