“SULL’ALTOPIANO DELL’IO SOTTILE”: DIARIO INEDITO DI EUGENIO GHERSI DELLA SPEDIZIONE SCIENTIFICA ITALIANA NEL TIBET OCCIDENTALE DEL 1933, Mirabile Tibet

“SULL’ALTOPIANO DELL’IO SOTTILE”: DIARIO INEDITO DI EUGENIO GHERSI DELLA SPEDIZIONE SCIENTIFICA ITALIANA NEL TIBET OCCIDENTALE DEL 1933

  • by Redazione
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  • 26 Ago 2017
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 2 luglio 1933 Losar

“Le case sono una ventina, tutte quadrate o rettangolari a due piani. Il piano terreno è un unico locale adibito a stalle per le pecore, al piano superiore c’è l’abitazione che è composta da due – tre locali uno dei quali è riservato alla cappella. Il piano terreno non ha finestre… Il locale più grande, dove praticamente vive tutta la famiglia, è la cucina. Due o tre piccoli locali sono per deposito di materiale vario (orzo, farina, chang). Una spaziosa veranda innanzi alla cappella, il gon kang. Tutte le case hanno il tetto piano formato da uno strato di sterpaglia di erba secca che può avere uno spessore da 30 cm a due metri secondo le regioni più o meno fredde. Tra lo strato di sterpaglia ed il piano portante c’è uno strato consistente di sterco di Yak, battuto, che assicura l’impermeabilità del tetto.  Ad una cordicella colorata di lana tesa tra due bacchette sono appese varie stoffe colorate (dharani). Al mattino buona parte del villaggio è intorno al nostro campo. Tra i curiosi c’è il medico al quale Tucci rivolge un saluto in correttissimo tibetano e quindi inizia un animato dialogo tra lo stupore dei presenti. Anche due sacerdoti (trapa) prendono parte alle conversazione e lasciando il campo invitano Tucci a partecipare alla funzione religiosa che avrà luogo nel tempio prima di mezzogiorno…. Nella cappella di un sacerdote Tucci ha notato una thanka (pittura su tela) di notevole interesse ed offre subito ben 160 rupie in argento per l’eventuale acquisto. Il sacerdote, molto garbatamente, non accetta la cospicua offerta raccontando che suo padre, morente, gli disse che la prosperità dei campi del villaggio era legata a quella thangka e che quindi quella sacra immagine non doveva assolutamente lasciare la casa. Nel tardo pomeriggio arrivano al campo i sacerdoti del Gompa (monastero) in abito da cerimonia e berretto giallo della setta, per offrire una danza simbolica in onore di un ci-lim-pà (uomo che viene al di là delle montagne) e che è così grande conoscitore della loro religione…”

27 luglio 1933 villaggio di Tashigang

24° campo, 3700 metri. Sembra veramente incredibile che degli uomini abbiano scelto, come loro sede, una zona dove è difficile trovare pochi metri di piano. Il villaggio è tutto scale e ripide viuzze. Appena il campo è sistemato noi iniziamo la salita di una lunga scalinata che termina al Gompa. 

Lo Skushok  [incarnazione del Buddha e abate del Monastero, ndr.]è nato 700 anni or sono e per varie incarnazioni (Sansara) è tuttora capo del Gompa. All’entrata del tempio siamo ricevuti da un cortesissimo vecchio Lama, in attesa di essere ricevuti dallo Skushok. Sul terrazzo dove siamo in attesa, entrano ed escono numerose capre. Preceduto da un servo, arriva l’ incarnato che va incontro a Tucci come se lo avesse già conosciuto. Mentre l’ incarnato e Tucci iniziano una probabile discussione su argomenti di mistica ed altri incomprensibili problemi religiosi, io mi allontano per documentare con fotografie e cinematografie questo eccezionale villaggio. Scendendo verso il campo Tucci mi dice che è riuscito ad ottenere il permesso di vedere il raro esemplare di un Rukien custodito nel tempio.

 Il Rukien è un particolare addobbo formato da ossa umane finemente lavorate. Le ossa lunghe sono selezionate per il lungo e per il traverso in modo da ottenere dei pezzi di circa 10cm X 3-4 cm. I vari pezzi sono uniti da catenelle formate da piccole ossa. La collana è formata da 108 rondelle ossee ricavate da parietali e frontali del cranio. Il Rukien, generalmente, viene indossato dal Lama nella terrificante prova del Ciod. La prova è un tentativo che un Lama esegue per raggiungere l’illuminazione per via diretta senza ulteriore Sansara. Tutte le offerte assai generose, fatte da Tucci per ottenere il trasferimento del Rukien nella cappella del pellegrino Tucci sono state gentilmente non accolte.”

I due brani sopra riportati sono tratti dal libro di David BellatallaSull’Altipiano dell’Io Sottile,  Diario inedito di Eugenio Ghersi della spedizione scientifica italiana nel Tibet occidentale del 1933 (Montura Editing – Tasci S.r.l. 2016). Si tratta della prima pubblicazione dei due diari dattiloscritti del  Capitano Eugenio Ghersi (Ufficiale medico di Marina, 1904-1997) , membro delle spedizioni scientifiche nel Tibet della Reale Accademia d’Italia. Il primo testo è il diario personale, un dattiloscritto in formato A4 composto da 82 pagine, rilegato artigianalmente con copertina rigida e corredato da immagini fotografiche incollate alle pagine, mappe, schemi, planimetrie di templi eseguite a mano; il secondo è costituito da note, appunti e riflessioni con annotazioni , delle due esperienze tibetane (1933 e 1935) in un quaderno ad anelli per un totale di 56 pagine.

David Bellatalla, autore del libro, ha condotto il lavoro scrupoloso di edizione con la diretta partecipazione di Eugenio Ghersi, ormai anziano Ammiraglio di Marina, e ricorda una frase che spesso  Ghersi ripeteva: L’Himalaya è un luogo davvero strano; lassù tra infinite pietraie c’è uno strano mercato, dove puoi barattare il vortice della vita con una serenità senza confini”

Il primo dei due preziosi testi costituisce le fondamenta  di “Cronaca della missione scientifica Tucci nel Tibet occidentale, 1933 pubblicata dalla Reale Accademia d’Italia nel 1934 a firma dello stesso Ghersi e del suo capo missione, il noto orientalista Giuseppe Tucci, intesa a divulgare i risultati di un’esplorazione condotta per mesi attraverso terreni impervi, con l’obiettivo di scoprire e documentare le vestigia della civiltà tibetana, allora quasi ignota agli studiosi occidentali.

La storia dei primi viaggi compiuti da Tucci nell’Himalaya è ancora in realtà lacunosa: assenza di diari, fotografie non databili e non identificabili, mancanza di note, itinerari poco precisi e forse non ben programmati. Tutti elementi che non aiutano a fissare le esperienze del Ladakh (1928) e Nepal (1929) intese a penetrare in alcune biblioteche monastiche per poter studiare de visu copie di testi sacri indiani e le loro traduzioni in tibetano. Ovviamente rimane il grande contributo scientifico e filologico di Tucci, il quale però non si ritenne pago di quelle ricerche e avvertì la necessità di ampliare l’orizzonte integrando i dati storico-filologici con altre fonti documentarie: epigrafia, tradizioni popolari, raccolte di manufatti e corredi sacri. Le spedizioni del 1930 in Baltistan e Ladakh e quella del 1931 attraverso l’Himalaya indiano soddisfecero queste esigenze, ma furono anche dispersive per mancanza di pianificazione e perché spesso rese difficili da problemi amministrativi dipendenti dal delicato equilibrio politico in zone di frontiera mentre era in corso il “Grande Gioco”. C’era anche in Tucci la triste coscienza che tutto un patrimonio tradizionale era seriamente minacciato dall’abbandono e dall’incuria, in contrade poverissime e ormai spopolate, per cui era necessario trovare, oltre ai finanziamenti che gli vennero da amici industriali (Oleandro Isnardi di Imperia), un accompagnatore capace e attento.

Quell’accompagnatore che sapeva anche usare la fotografia e la ripresa cinematografica (Tucci non aveva dimestichezza con alcun macchinario) fu il Capitano Ghersi. E così le spedizioni seguenti, che videro Ghersi a fianco di Tucci, furono senz’altro le più fruttuose (quella del 1933 del Diario e quella del 1935 quando visiteranno il lago Manasarowar e il Monte Kailasa).

I diari di Ghersi con la loro scrupolosa precisione finalmente rompono l’oscurità. Da questi inediti emergono finalmente particolari più concreti ed ‘umani’: la fatica dei percorsi, l’allestimento dei campi, la gente curiosa dei villaggi, come sono costruite le case, come sono allevati gli animali, descrizioni di assemblee di villaggio e feste rituali… cose non secondarie rispetto al fatto che Tucci viene ‘guardato’ dall’esterno: ne emerge l’indiscutibile preparazione linguistica e scientifica, il riguardo con cui è trattato dalla popolazione locale e dai Lama… benché spesso debba arrangiarsi a trattare sul prezzo dei reperti che intende acquisire o faccia l’abile promotore di se stesso e delle conserve di pomodoro Cirio cui sono molto interessate le donne dei villaggi.

Ghersi non solo soddisfece appieno le richieste, ma seppe introdurre qualcosa a cui Tucci non aveva neppure pensato: il cinema. Delle sue capacità ci si può rendere conto visionando i documenti dell’Istituto Nazionale Luce: il primo sul Tibet, documento filmato sonoro di 46 minuti intitolato “Nel Tibet occidentale” e il secondo, muto di soli 12 minuti, sulla successiva spedizione in Nepal.

Per concludere voglio dire della ‘modernità’ di Giuseppe Tucci, ben compresa dal suo compagno di viaggio. Infatti negli anni in cui c’erano antropologi che teorizzavano che fosse giusto depredare le culture “subalterne”, lui si avvicinava a esse con rispetto. Nel 1934 Tucci scriveva nella Cronaca della Missione nel Tibet Occidentale: “Non basta la conoscenza della lingua e dei dialetti: bisogna saper conquistare la fiducia di questa gente, dare ad essa l’impressione che c’è affinità spirituale fra il visitatore e loro, abbandonare alle frontiere della loro terra quella boria europea di cui è tanto difficile spogliarsi. Io mi presentavo in veste di discepolo, anche se la conversazione su temi astrusi di teologia e metafisica – quando trovassi monaci capaci di intendermi – mostrasse che non ero un novizio; mi genuflettevo di fronte alle statue, recitavo le formule di preghiera nel silenzio austero dei sacrari, facevo devotamente accendere sugli altari una lampada votiva, ad incremento del mio merito, e portavo con sommo rispetto alla fronte ogni libro o statua che mi fosse offerta.”

Ricordo che il MNAO (Museo Nazionale Archeologico Orientale) di Roma è intitolato a Giuseppe Tucci. Nel Museo sono confluite tutte le raccolte tibetane di manoscritti, thanka, oggetti rituali e domestici acquisite dallo studioso.