DALL’EMILIA AL TIBET. ORAZIO OLIVIERI, UN FRANCESCANO ALLA CORTE DI LHASA, Mirabile Tibet

DALL’EMILIA AL TIBET. ORAZIO OLIVIERI, UN FRANCESCANO ALLA CORTE DI LHASA

  • by Redazione
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  • 15 Mar 2022
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Quando si sale un altura, in Italia, è normale trovare una croce messa a segno dell’impresa. Eppure in provincia di Rimini, nel piccolo paese di  Pennabilli, chiunque salga sul Roccione, l’altura da cui si spazia con lo sguardo sulla Val Marecchia, troverà davanti a sé  tre ruote di preghiera del buddismo tibetano ed una campana cristiana. Queste ruote e la campana raccontano la stessa vicenda. La storia avventurosa di un francescano che partito dall’Emilia Romagna si recò in Tibet. Un’avventura che ci porta indietro di quasi tre secoli. Ripercorriamola insieme.

Dall’Emilia al Tibet. La missione a Lhasa

Il nostro protagonista è Francesco Orazio, figlio del conte Olivieri, signore che sul finire del 1680 governava su queste terre. Verso la fine del secolo il ragazzo decide di lasciare gli agi del castello di famiglia per entrare nell’ordine francescano: diventa un frate cappuccino e va a stare nel convento di Pietrarubbia. Proprio in quell’epoca, ai primi del Settecento, la Chiesa cattolica, con la Congregazione “de Propaganda Fide”, progetta di diffondere la fede cristiana anche tra il Gange e le vette dell’Himalaya, affidando la missione ai francescani. Nel nostro blog avevamo già parlato della relazione fatta dal portoghese De Andrade circa la presenza di un  luogo remoto e mistico, sperduto tra altissime montagne a sud dell’Impero cinese. Ebbene stiamo parlando proprio del Tibet.

Le prime due missioni dei cappuccini dirette a Lhasa, la capitale del regno tibetano, riescono a stabilire con molta fatica un primo contatto, ma solo con la terza, partita dalle coste della Bretagna nell’agosto del 1712, quel primo approccio viene consolidato. Di questa spedizione fa parte anche il trentaduenne frate Orazio. Certo, se il viaggio verso Patna, sul fiume Gange, e luogo di partenza scelto verso il Nepal, non è dei più semplici; neanche l’esperienza in direzione Kathmandu non è ottimale. Tanti i pericoli, ma verso il 1715 il drappello di cappuccini giunge finalmente in Nepal. Ma la strada per il Tibet trova ancora un ostacolo. Il piccolo regno è infatti in una situazione di instabilità a causa delle lotte interne tra le signorie locali. Impossibile quindi proseguire. La sosta dura quasi un anno, durante il quale bisogna fronteggiare, tra le altre cose, anche un’epidemia che colpisce il paese. Quando i sacerdoti indù addossano la colpa del morbo al colore del saio francescano, i missionari non si perdono d’animo e si vestono di azzurro. Nel settembre 1716 i francescani sono pronti a partire. Bisogna solo superare gli impervi valichi della grande catena himalayana.

Dopo quasi un mese, ai primi di ottobre del 1716, i cappuccini (in tutto tre) arrivano a Lhasa, e scoprono un attivissimo crocevia commerciale tra India, Cina e Mongolia. L’incontro con il clero buddhista è altresì importante tanto che il frate Orazio ci lascia importantissime testimonianze storiche di vita dell’epoca. Nonostante le differenze, i francescani sono ben accolti, anche perché stringono amicizie e, grazie alle loro conoscenze mediche, sanno curare molte malattie, ma non possono fare proseliti, se non tra gli stranieri di passaggio. I tibetani, annota Orazio “si dimostrano docili ed umani, sottomettendosi al ragionevole”, a parte i religiosi, però, che “si rendono più pertinaci in difesa di loro setta”.

Il dizionario tibetano-italiano

Questa missione francescana durerà  ben sedici anni, durante i quali il paese conosce scontri di potere ai vertici del regno, l’invasione degli Zungari e molto altro. Nonostante tutto, i cappuccini, che i tibetani ormai chiamano “lama dalle teste bianche”, si sono guadagnati il privilegio di acquistare un piccolo pezzo di terra dove erigono un ospizio e una chiesetta. Frate Orazio, che è stato nominato prefetto della missione, ne ha approfittato per studiare la storia, la geografia e le istituzioni del luogo, e soprattutto la lingua: il suo dizionario tibetano-italiano, forte di ben 35.000 vocaboli, è il primo tramite culturale tra l’Europa e questo angolo di mondo e sarà la base su cui, un secolo dopo, sarà messo a punto il dizionario inglese.

Nel 1732 frate Orazio decide di ripartire alla volta dell’Italia, anche per chiedere nuove risorse per la missione. Dopo un viaggio di quasi quattro anni e giunto finalmente a Roma, Orazio ottiene l’appoggio del papa Clemente XII. Il frate ottiene  denaro, altri dieci missionari, doni per il reggente del regno tibetano e un’attrezzatura tipografica con cui stampare libri e documenti nell’alfabeto tibetano. Ritornato a Lhasa nel gennaio 1741, il buon ricordo lasciato dai francescani, i doni elargiti e una situazione interna più stabile fanno sì che i governanti lascino più spazio ai tentativi di evangelizzazione, con tanto di documenti ufficiali che consentono a chiunque di seguire la religione dei “lama bianchi”. “Che Iddio si compiaccia di illuminare queste povere Anime per conoscere la vera Legge, per evitare le pene dell’Inferno ed acquistare la gloria del Paradiso”: così scrive Orazio in una lettera al fratello. Tuttavia la parentesi felice di Orazio durerà poco. Di lì a a qualche anno un inasprirsi delle relazioni tra il clero buddhista, coadiuvato anche dal potere politico, costringerà i francescani ad andarsene. Frate Francesco Orazio della Penna, già malato, morirà qualche anno più tardi.

La gran parte delle tracce di questa storia sembravano perdute, come i caratteri mobili della stamperia portata dai frati a dorso di yak o come le traduzioni dei testi tibetani pazientemente compilate da Orazio. Invece, qualche anno fa, un team di archeologi cinesi ha incredibilmente ritrovato la campana che i francescani avevano issato sul loro piccolo convento. Era stata stranamente portata nel tempio di Jokhang. Di qui la scelta qualche anno fa di installare nel piccolo Pennabilli le campane cristiane e le ruote di preghiera. Questo perché che si canti il “Te Deum laudamus” o si reciti il “Om Mani Padme Hum”,  queste sei sillabe scritte in due lingue diverse sono un inno per chiedere la pace e salutare un uomo che ha avvicinato Oriente ed Occidente